“Eternal Sunshine of the Spotless Mind.”

Accendo l’ennesima sigaretta di troppo con il tuo accendino. È rosso, lo hai dimenticato a casa mia in una sera di una vita fa. Era d’estate, un’estate vera, non fredda come questa.
Non sono affacciata al balcone, guardo la porta o meglio, guardo lo stipite a cui ti sei appoggiato tante volte, quando abbiamo fumato insieme, dopo il caffè, dopo tutto il resto.
Se non fumo sto seduta sul divano. Anche quando sono lì fisso la porta: rivedo tutte le volte in cui l’ho vista aprirsi per permetterti di entrare, per permettere al tuo sorriso e al tuo sguardo di entrare.
Il tuo modo di guardarmi è il frammento di film che più di ogni altro proiettano i ricordi: desiderio, aspettativa e meraviglia insieme. L’incanto nei tuoi occhi e l’incanto dei tuoi occhi, i più vivi in cui abbia mai guardato.
A parte gli accendini – ne hai dimenticati ben tre nel corso del nostro tempo – non mi resta molto altro di tangibile. Il cd che mi hai regalato, un biglietto di auguri e uno del cinema. Chissà dov’è il biglietto del cinema, mi chiedo, forse in una vecchia agenda o a far da segnalibro in uno dei romanzi che ho tentato di leggere mentre c’eri tu, uno di quelli che non sono mai riuscita a finire.
Le foto, certo, e poi i messaggi: mesi di messaggi di ogni sorta. Le foto e le chat, però, non devi metterli fisicamente nella scatola delle vestigia del passato da consegnare ai “dottori” quando vai a farti cancellare la memoria. Quelle verranno eliminate direttamente tramite computer, insieme a tutte le tracce telematiche che ti riguardano, e dopo sarà come se non fossi mai esistito.
Penso che mi mancherà il ricordo dei tuoi occhi, come mi manca (“Dopo tutto questo tempo?” “Sempre.”) non guardarli più, ma poi mi rendo conto che non può mancarti quel che non conosci. Che non ci sarà più il tuo sguardo tra le mie sinapsi. Resterà un buco? Che cosa prenderà il posto dei miei ricordi di te quando non ne esisterà più la minima traccia?

Ogni memoria di te verrà spazzata via, soprattutto quell’assurda ipotesi dell’essere amici, del volersi bene, sempre e comunque. In questo tempo lunghissimo, eterno, senza di te ti ho odiato, mi hai fatto rabbia e sentire umiliata, e sciocca, ma mai ho smesso di volerti bene, sempre e comunque. E nonostante tutto.
Ma noi non siamo amici: non lo siamo mai stati, non lo saremo mai, non potremo mai esserlo, non voglio che lo siamo. Ho tanti amici preziosi che sanno esserlo meglio di te.
Ho provato ad ucciderlo in tutti i modi, tu hai cercato di ucciderlo più volte, persino gli eventi e le voci che ho sentito sul tuo conto (vox populi, vox dei?) hanno partecipato a questo amaro tentato omicidio, ma, dopo tutto questo tempo, il desiderio di te non è morto – e il tuo?
L’unica strada, ora, è cancellarti.
Ho dormito sul divano in questi due giorni. Non riesco a stare in camera da letto più del tempo necessario a prendere gli abiti puliti. Mi cambio nel bagno.
In quella stanza i ricordi sono intensi. Si fanno più audaci, attaccano con veemenza.
La decisione di prendere appuntamento con la Lacuna Inc. è stata presa proprio qui. Fissavo il soffitto dopo l’ennesima notte insonne, vegliata al lume non del rancore, ma della mancanza: non accadrà più questo, non faremo più quello, non riderai più tra queste pareti color ciclamino, non ti sentirò canticchiare mentre ti fai la doccia. Niente.
Il niente da cui fuggire è diventato più importante del tutto da tenere ad ogni costo.

Ci vediamo a Montauk.

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